no.172

A quanto pare ho già scritto e pubblicato la bellezza di 171 post su questo blog. E mi chiedo esattamente quanti di questi siano effettivamente da tenere, quali raccontino una storia, e quali in realtà dovrebbero essere tenuti privati perché di natura personale.

Credo questo blog sia stato a suo tempo una delle mie idee poco ragionate, affatto pianificate, e semplicemente spuntate lì dopo una notte di pioggia, come le primule in un campo. Buffo, no? Ora non faccio che pianificare. Faccio piani dei piani, e poi devo rifare il piano iniziale perché facendone il piano è cambiato qualcosa. E mi ritrovo da punto a capo. Non ti sei ancora perso, lettore, vero?

Io un po’ sì.

La spontaneità mi piace: è irruente, irrispettosa… così come amo fare progetti che spesso abbandono a metà. Non perché mi sia annoiata, e neanche perché credo non ne valga più la pena o non somigli all’idea che mi ero fatta inizialmente di tale progetto. Semplicemente perché arrivati ad un certo punto per me è semplicemente naturale lasciar perdere.

Ho contemplato chiudere questa pagina web. Ho pensato di aprirne un’altra che rifletta di più la persona che credo di essere ora: storie brevi, magari buttarci dentro qualche review di libri che leggo (quei pochi per cui trovo il tempo che ritengo sia sempre rubato allo studio, ma di cui non posso proprio fare a meno), qualcosa della mia vita universitaria forse (nel senso la materia di studio, non la mia vita di tutti i giorni, visto che quella rimane noiosissima, e invece sto iniziando a studiare per la tesi (panico e paura))?

Penso tante cose, poi, come dicono tanti, includendo me stessa, sono troppo pigra per effettivamente farle. Se non prevede che io stia seduta da qualche parte, è raro che prenda effettivamente l’iniziativa, e anche allora, mi faccio mangiare dai dubbi, le insicurezze, e i perché.

Siamo a 315 parole di inutilità per questo post numero 172. Forse ci passiamo tutti nella fase del: che sto facendo? sto raggiungendo un obiettivo? l’obiettivo che credo di star raggiungendo è effettivamente quello che voglio? sono nel posto giusto o ho preso una cantonata di dimensioni galattiche?

Comunque, mi ritrovo di nuovo qua. Certe cose forse sono destinate semplicemente a restare perchè rappresentano una sorta di appiglio, scialuppa di salvataggio, e non perché sono importanti o hanno un ruolo specifico. Sono come il comfort food, o la tua coperta preferita.

Forse, se davvero cambierò quello che sto facendo qui, o aprirò un posto nuovo, gli darò una forma. Con categorie, tag che sono effettivamente utili, un background che non sia talmente generico da poter essere confuso con il sito web di una scuola media (parliamo comunque di almeno un paio di anni fa, quelli di adesso sono fatti mediamente bene), meno me che però voglia dire anche più me, semplicemente la versione 2.0 di me che è diventata ancora più maniacale (in senso positivo, se una versione tale del termine esiste nella lingua italiana).

Scrivere

Sono mesi che non scrivo qui. Forse anche mesi che non scrivo proprio. Solo cose brevi, piccoli excerps che tengo per me, nascosti, chiusi in un quaderno nuovo che sogno di riempire… si avvererà mai? La conosciamo tutti la risposta a quella domanda, ma fa più comodo, almeno a me, far finta che forse un giorno, sfogliandolo, tutte le pagine color crema saranno coperte dalla mia minuta grafia.

Sto usando solo penne nere adesso. Strano come cose così piccole possano essere quasi importanti.

Con la penna nera mi sembra di scrivere costantemente un biglietto di condoglianze. 

E adesso non uso che quella. Forse scrivo sempre condoglianze, ed è per quello che la cosa non mi disturba più di tanto.

Comunque, tornando al soggetto annunciato dal titolo, scrivere. Non mi pare di aver più niente di rilevante, o minimamente poetico (termine usato in senso lato) da condividere. Non faccio più niente di poetico:

  • studio una materia asciutta e precisa che però mi porta una gioia indescrivibile (non ci credo quasi neanche io… come è possibile che qualcuno come me, immensamente innamorata della letteratura e dell’arte, abbia potuto scegliere di perseguire una carriera nel campo scientifico?);
  • non suono (non ho lo strumento a portata di mano)
  • non canto (non che fossi un gran ché, ma era divertente, era liberatorio)
  • e, dulcis in fundo, non scrivo.

Mi mancano l’improvviso desiderio di scrivere cose assolutamente insensate, scene di storie che non completerò mai, piccoli estratti di vita quotidiana immaginaria. Ora vedo qualcosa di semplice, puro, bello, e resta lì, fermo nel suo attimo, pronto a svanire, senza che io lo catturi su carta. Non importa molto, alla fine se non lo legge nessuno non ha nessuna importanza ad alcuno. Ma ero io. Le mille carte raccolte in altrettanti raccoglitori e quaderni facevano di me, me.

Non ho belle parole da raccogliere in un posto solo. Avrò esaurito la mia scorta forse.

Mi manca la scrittura. Mi manca portare la penna al foglio solo per il gusto di farlo, solo per il piacere inadulterato di creare.

Mi manco io.

L’ultima cosa che ho scritto era una domanda per uno stage estivo, e persino quella era più lunga di questo post che sta diventando uno sfogo del mio cervello annoiato. Dunque, dove andiamo a finire qui?

Direi che una composizione circolare andrebbe benissimo: la scrittura.

Alziamo i calici per una cara amica che ci ha lasciati.

 

L’Amore, quello romantico, con la A maiuscola

9 febbraio 2014

In TV danno “L’amore secondo Dan”, e l’amore secondo me com’è? L’amore deve tenere in considerazione le litigate e il sesso o deve essere solo quello che possono vedere tutti per strada? L’amore può chiudersi in se stesso per qualche ora ed essere autosufficiente, oppure ha bisogno dell’altro che lo tenga per mano in ogni momento? L’amore è quello delle coppiette felici i primi dieci giorni a scuola, oppure è quello delle coppie, sposate o meno, che restano insieme dopo anni anche se avrebbero meno capelli bianchi per lo stress delle litigate? L’amore può avere una faccia, oppure è solo quello divino di Dante “L’Amor che move il Sole e le altre stelle”?

L’Amore non è quella pietanza sciapa e indefinita che sembra servano in  ospedale, e forse nemmeno lo si può trovare nelle esuberanti bollicine di un vino dolce; non è nella linea piatta dell’orizzonte, ma neanche nell’elettrocardiogramma di un tachicardico. Dov’è allora? Nelle vie di mezzo? Nel grigio gessato di un completo da uomo esposto nelle vie del centro? Nello smog delle nostre città affollate? Forse, invece, sta proprio nel rosso delle scatole di cioccolatini che tutti comprano a San Valentino, nei fiori che per una volta non finiranno sul freddo marmo di una tomba… magari lo si può trovare sia nell’ossessività di un compagno geloso che nella dimenticanza di uno con altri mille pensieri che gli frullano per la testa. Potrebbe essere qualcosa di tutto questo, oppure è proprio una di quelle righe di poesia mielosa. Sarebbe il colmo per me che lo vedo unicamente come un dovere nei confronti dell’altro, qualche artificio per star bene l’altro mentre a me pesa tanto. Lo vedo ancora come le urla arrabbiate di notte quando credevano che non avremmo sentito e non più negli abbracci a cui mi aggiungevo volentieri, non lo vedo nei baci perché non ne ricordo nemmeno uno. Lo vedo agli sgoccioli, consumato e logorato dagli anni e da un trasloco che non volevamo, lo vedo nella sua altra faccia dopo che ci si è stancati, nelle parole cattive e nell’indifferenza. Lo vedo solo nella sua versione matura e stanca, non negli sguardi felici dei giovani amanti che le canzoni lodano tanto, non nella dita intrecciate di chi passeggia per strada. E ho paura di arrivarci anche io, ho paura di crescere e non viverlo più.

18 marzo 2014

Pensavo all’Amore innocente oggi, quello del primo fidanzato alle medie o ai primi anni di superiori, pensavo al timore di essere sempre di parte, pensavo alla gioia semplice dello stare seduti vicini, vedere un film a casa senza che ci siano i genitori anche se si sa che oltre a un abbraccio e un piccolo gioco con le mani non si corrono pericoli. Mi sono pensata a fermare a come le cose diventino ovvie, di come ci si faccia l’abitudine, proprio io che all’inizio nemmeno ci credevo. E’ bello vedere che poi tutto l’ingranaggio si mette a girare senza quei suoni strani degli orologi antichi fermi da anni, come se le lancette dovessero impazzire da un momento all’altro, senza dare alcun preavviso se non il silenzioso avvertimento  del tuo istinto che forse per una volta dovresti ascoltare.

14 maggio 2014

(The Scientist – Coldplay)

Dovremmo smetterla tutti di parlare e scrivere dell’Amore serio e maturo, esperto e senza i fuochi d’artificio accesi dal brivido dell’errore. Dovremmo iniziare a dirci qualcosa di quello pavido e imbranato degli adolescenti al liceo che, per quanto possano sentirsi al di sopra del resto del mondo, c’è comunque stata la spaventosa esperienza delle mani che tremano, la voce che manca così come il coraggio di guardarlo/a negli occhi.

Dobbiamo raccontarci della paura che questa volta è più vicina all’incertezza se va bene ora tenersi per mano, e cosa sta pensando oppure se va bene se lo/a bacio ora o forse devo aspettare la prossima volta, sperando che ci sia… questo? Che ne facciamo? Lo buttiamo fuori dalla finestra? Nessuno parla mai dei ragazzi senza secondi fini, quelli che ancora non credono che essere “bello e impossibile” sia l’unico modo per attrarre l’attenzione di una ragazza, quelli che leggono i messaggi otto volte prima di mandarli e poi comunque si danno dell’impulsivo, quelli che guardano il soffitto quando ti stanno parlando al telefono. Loro, gli impossibilmente dolci, i “ti chiamo tra dieci minuti, molla tutto”, quelli che aspettano l’autobus con te e per l’ultimo bacio perdono ancora una volta il loro; non abbiamo il cuore di rifiutarli, ma nemmeno sono quelli di cui i lettori si innamorano a prima vista. Hanno una risata meno studiata e la complicità nasce dopo pochi minuti, come un contagio mortale cui non si può sfuggire. Non importa che arrossiscano ancora, non davvero, vuol dire che non hanno eretto l’impenetrabile muraglia che crolla solo con decisi colpi di ariete.

Che ne facciamo? Se ne scriviamo siamo ovvi, se li lasciamo da parte la gente prova simpatia, ma niente più. Vogliamo cose realistiche, e pensiamo che la realtà stia nella cattiveria del mondo che ci costringe a cambiare almeno fuori… non capiamo che non ci sarà mai niente di più vero del loro tenerci tra le braccia a dispetto di tutti.

I ragazzi innamorati stanno in piedi perché li si veda!

3 dicembre 2014

La cosa dell’amore di noi adolescenti prossimi all’essere adulti è che passa diverse fasi: quella in cui noi non lo sappiamo, ma il resto del mondo sorride alla nostra ingenuità; quella in cui vogliamo convincerci che non sia vero, ma frutto di una alterazione dello stato naturale della nostra mente; quella in cui siamo totalmente persi e non vediamo che l’altro in ogni angolo, lo sentiamo in ogni sussurro; quella in cui ci assillano i dubbi, quella peggiore, quando non sai che fare e vorresti solo che non fosse capitato a te… prima o poi tutti arrivano alla fase dell’odio, che fosse amore corrisposto o meno, tutti arrivano a detestare chi per un tempo ci ha fatto così bene.

Siamo così teatrali nel fare le cose noi giovani, noi che siamo quasi adulti, noi che non sappiamo come o se arriveremo a domani, e ci perdiamo nelle piccolezze dei costumi di scena e la corretta intonazione della voce; noi adolescenti con la fretta che ci mangia non vediamo l’ora di crescere, noi adolescenti con la calma di tutto il mondo procrastiniamo le scelte che nessun altro può prendere per noi.

Abbiamo fretta di imparare, ma non vogliamo dover cominciare ad agire: amiamo i navigatori, sono la metafora perfetta, scegliamo la destinazione ma chi conosce meglio di noi la strada ci faccia pure da guida. Per un po’ saremo Dante che si stringe al suo Virgilio, finché possiamo faremo parlare gli altri e poi, con l’effetto sorpresa devastante di un vulcano che credevamo fosse sopito, entreremo sulla scena non più pubblicando i nostri pensieri sotto un nome d’arte, nascondendoci dietro un rumore assordante, ma pronunciando con orgoglio ogni singola sillaba.

Noi adolescenti quasi adulti ancora un po’ bambini vediamo ancora tutte le tonalità di grigio di questo mondo in chiaro-scuro, noi che non avremo mai un posto da chiamare nostro non abbiamo ancora neanche il coraggio di chiudere gli occhi e far finta che non sia vero, noi che vogliamo prendere le cose di petto e ci vergogniamo di fare una telefonata forse non conquisteremo il mondo, forse ci conformeremo al mondo… ma con calma, perché non abbiamo fretta.

4 dicembre 2015

Amore. Cosa sei, amore? Come ti si riconosce nella calca di emozioni? Cosa ti rende unico? Conosco la sintomatologia dell’amore, ne parlano così tanti. Cose se fosse una malattia, come se amare fosse qualcosa che non possiamo controllare; bugia, balla bella e buona: non posso perdere il controllo.

Amore, dove vai? In quali anfratti ti chiudi, nascosto nella polvere ad attendere pazientemente che tutto vada in tilt? Non ti fai scovare prima che sia troppo tardi per cacciarti fuori.

La gelosia, che io non capisco e forse non ho mai provato, è un mostro dagli occhi verdi. Tu invece, amore, che aspetto hai? Ti confondi da moltissimo tempo tra le tenebre quindi non puoi avere un colore molto sgargiante, o forse possiedi il mantello dell’invisibilità. Hai gli occhi di bragia come Caronte il traghettatore infernale, alla fine avete lo stesso compito.

Ma cosa fai? Come ti si riconosce? La sintomatologia dell’innamoramento è stupida, è quella dell’influenza o della paura. Sarai fiducia? Eppure c’è chi dice di amare anche dopo un tradimento. E’ una scelta? Ma come si fa a dire a qualcuno “ti amo”? Come lo decidi? Sconvolgente, travolgente, la cresta di un’onda perfetta. Potresti essere un lutto allora. Ironico che ti abbiamo raffigurato per secoli come un bambinetto paffuto, quasi innocente, che fa tenerezza. Non c’è niente di dolce in te! Niente di piacevole!

Sei lo scontrarsi continuo e ripetitivo di persone fino a quando non hanno smussato gli stessi angoli e possono camminare fianco a fianco senza ferirsi, sei il dolore sordo della delusione, sei il calore ustionante delle bugie. Quella più frequente è proprio il “ti amo”.

Siamo tanti piccoli masochisti con tendenze suicide, marionette e automi che cercano tutti il batticuore e le capriole dello stomaco. Con la febbre ottieni lo stesso risultato e a quella comunque c’è sempre rimedio quando ti sarai stancato.

Sei una bugia, un’allucinazione, una malattia, un arto fantasma che fa ancora male, una dipendenza inconsistente e leggera come l’aria. Abbi il coraggio di annunciarti, almeno saprò di cosa sto morendo.

21 maggio 2017

C8H11NO2 + C10H12N2O + C43H66N12O12S2

Come fanno le persone a innamorarsi o a dire di essere innamorate? Di cosa si innamorano? Come lo riconoscono?

Lo so, ci risono… parlo di nuovo dell’amore (quello romantico, con la A maiuscola); ma deve essere stagione perché tutta la gente che ho intorno non fa altro. E io? Io non capisco. Conosco la chimica, ma è come se il mio cervello rifiutasse assolutamente la combinazione di molecole, come se fossero portartici di peste!

Quindi? Come lo riconoscono le persone quando si accorgono che si sono innamorati? Non lo chiedo con amarezza o tristezza, solo solo confusa e curiosa (tanto per cambiare) e mi piacerebbe trovare una risposta che capisca e con cui possa un giorno identificarmi.

Dunque, il benedetto colpo di fulmine da cui non si rinsavisce appena non vedi più la persona come si trova? Come lo si distingue da un generico interesse? Quando ci si accorge che non si sta più parlando dell’Amore in astratto, ma riferendosi a una situazione concreta e tangibile… non a una persona immaginaria, ma a un individuo specifico? E poi, l’Amore è semplicemente (che poi non è neanche semplice ma va beh) sentirsi comfortable con qualcuno o è la continua sensazione di felicità e avere un sorriso stampato in viso quando pensi a quell’individuo? Quale è la spiegazione più logica? Se c’è una formula chimica, deve esserci anche della logica, checché ne dicano i libri!

Dovrei arrendermi perché una risposta univoca non c’è, ma il dubbio è un tarlo così noioso.

Good Night, Sleep Tight

“E vissero per sempre felici e contenti.” si stava alzando dal letto per andare a spegnere la luce della lampadina quando sentì la voce insonnolita del bambino.

“E dopo?”

“Come e dopo? Vissero felici e contenti!”

“Papà… non si può fermare così. Cosa succede dopo nelle favole?”

L’uomo tornò a sedersi e sospirò passandosi una mano tra i capelli per poi fare una carezza al figlio che con gli occhi appena aperti lo fissava sepolto sotto le coperte.

“Ricordami di mandare tua madre la prossima volta a raccontarti la favola della buonanotte.”

Lui sorrise e si girò su di un fianco per vedere meglio il padre, poi chiuse gli occhi in attesa.

“Beh, qualche storia nello specifico?”

“Hmm, Biancaneve.”

Cosa raccontare dopo? Le storie si fermavano sempre dopo il e vissero felici e contenti, non si era mai sentito di un sequel; ma a un bambino come spiegare tutto ciò? Doveva ricordarsi di portare un libro la prossima volta, quelli almeno poteva dosarli in puntate e il finale non doveva inventarselo… oppure incastrare la moglie davvero.

“Allora, – si schiarì la voce e si sistemò comodamente contro la testiera del letto – dopo che Azzurro e Biancaneve si sono sposati… lei ha voluto che andassero tutte le settimane a fare un pic-nic nella foresta, prima però mandò i migliori giardinieri a rendere sicura e curata la zona in cui il cacciatore aveva cercato di prenderle il cuore. Così tutti potevano cominciare ad apprezzare la foresta e smettere di temerla. Brontolo non era poi così contento di avere sempre gente tra i piedi, ma gli altri sei non volevano sentire ragioni: se la cosa rendeva felice la loro regina non c’era da discutere.

Il castello in cui Biancaneve aveva vissuto con la matrigna rimase disabitata a lungo, dimenticata. Poi un giorno, dopo aver risistemato la foresta per bene, per caso Azzurro vi tornò e decise che come regalo alla donna che amava l’avrebbe ristrutturata…”

“Papà – lo interruppe il bambino con voce sempre più assonnata – stai parlando come parlano sempre i grandi.”

“Oh, scusa tesoro. Non me ne ero accorto.”

L’uomo abbassò lo sguardo sui propri piedi che sbucavano dal lettino e scosse il capo, poi ricominciò la propria narrazione:

“Dopo un anno ebbero un bel bambino che chiamarono Aaron, come il padre di lei, e Azzurro dovette partire per una guerra che un vicino stava combattendo contro un’orda di streghe. Ovviamente vinse e al suo ritorno fu organizzata una grande festa a cui furono invitati tutti, ma proprio tutti! Anche il ciabattino.

Per l’occasione furono invitati, come ospiti speciali, un cantastorie e un menestrello da terre molto lontane che intrattenessero gli ospiti. Persino Pisolo riuscì a non addormentarsi nel proprio piatto.”

Il bambino ridacchiò e cercò una posizione più comoda, ci stava prendendo gusto a lavorare di fantasia.

“Il vecchio re dovette partire un giorno però, così Azzurro dovette assumere tutto il potere ed ebbe sempre meno tempo per stare con la propria famiglia…”

“No, parli di nuovo come i grandi.”

Questa volta il padre si girò confuso verso il figlio e guardando nei suoi grandi occhi verdi con le palpebre gonfie dal sonno gli domandò:

“Come parlano i grandi?”

“Per esempio, vi concentrate sempre sulle cose meno importanti, come il castello da ristrutturare invece che descrivere la foresta che riprendeva vita e gli scoiattoli che tornavano a rincorrersi sui rami. Poi… non so come spiegarlo, ma c’è sempre qualcosa di sbagliato nel modo in cui dite le cose, come se doveste pensarci due volte: si sente che non siete sinceri, che non dite tutto, che preferite tenervi alcune cose per voi. Papà, non offenderti, ma è come se non vedessi più le cose belle.”

L’adulto, che aveva cominciato a capire il punto di vista del bambino, rimase sorpreso da quell’ultima affermazione e per un attimo guardò perplesso i propri piedi pendere fuori dai confini del letto, ironicamente enormi quando messi vicino a tutto il resto in quella camera a misura di fanciullo. Si girò di nuovo verso il suo innocente interlocutore con ancora un’altra domanda, ma quello si era addormentato e dalla piccola bocca aperta uscivano piccoli gorgoglii che accompagnavano ogni espirazione. Si alzò e posò un bacio sulla fronte del figlio prima di socchiudere la porta della stanza e andare in cerca della moglie.

La trovò nel loro letto con un libro in mano. Si fermò alla porta e la guardò, con ancora nella testa le parole innocenti del bambino.

“Oh, si è addormentato?”

“Sì…” voleva parlare con lei, ma non sapeva come spiegare quello che era appena successo nella stanza accanto.

“Va tutto bene? Vedo quelle rotelle girare impazzite.” a lei non era mai riuscito a nascondere niente, motivo per cui non era riuscito a chiederle di sposarlo come aveva pianificato. Quanto avevano riso quella sera.

“Luca mi ha detto una cosa che non riesco a togliermi dalla testa. – Si andò a sedere sul bordo del letto mentre cercava le parole giuste.- Dice che noi grandi abbiamo un modo tutto nostro di parlare, che è diverso. Non siamo sinceri perché pensiamo troppo a quello che dobbiamo dire e non vediamo più le cose belle.”

Si ritrovò di nuovo a guardare in grandi occhi verdi dalle palpebre un po’ gonfie per il sonno e sorrise, quanto amava quegli occhi.

“Ti posso dire un segreto? – Lui annuì, sicuro che la moglie stava per dire una sciocchezza. – Ti amo. E stasera vedo una cosa bellissima qui davanti a me, e se devo smettere di parlare come i grandi per apprezzarla, allora così sia.”

Gli poggiò le labbra sulla fronte e dopo se lo portò al petto dove lui chiuse gli occhi e rimase per ascoltare i battiti lenti e forti del cuore di lei, permettendo al proprio di sincronizzarsi al suo.

Gelo

Non ti aspettavi che il freddo entrasse così prepotentemente, tutto a partire da un tocco così delicato. E ora sei bloccato, fragile come una sottilissima lastra di ghiaccio pronta a frantumarsi in un milione di minuscoli pezzi che si scioglieranno fino a lasciare di te una piccola pozza d’acqua che evaporerà.

Un indice freddo che ti ha sfiorato la guancia in una insolitamente tiepida giornata di marzo, il tocco era così leggero che non te ne saresti nemmeno accorto se non la stavi guardando. Tremendamente dolce e, ora che sai, doloroso, se solo al tempo il suo cuore avesse saputo riconoscere una tale emozione.

Ora estendi all’infinito il momento che precede il fatidico tocco: nella tua memoria scruti gli occhi della donna che amavi fino a raggiungere la mente che nascondeva così abilmente lì dietro, studi la morbida curva delle labbra che si schiudono pronte a mandare l’ossigeno ai polmoni e ti accorgi subito del pulsare erratico dell’arteria nel suo collo. Quando finalmente c’è il contatto presti maggiore attenzione alle sottili tracce di freddo che insidiose si infiltrano sotto la pelle e raggiungono in fretta il centro del petto, fai caso alla sensazione che sembra non andare più via, come la contaminazione che si aggrappa ferocemente all’individuo ospite.

Vedi l’espressione sorpresa che le attraversa il viso come una corrente elettrica, dai maggiore importanza alla brusca inspirazione e all’improvviso rossore che sale e sale dandone un colorito sano.

Tempo dopo ti sei fatto spiegare cosa è veramente successo in quei pochi secondi e non volevi crederci, ma ora non puoi pensare ad altro. Ti ha veramente passato un virus: la malattia dell’insensibilità e dell’apatia. Il problema di questo parassita è che si sposta da un corpo all’altro tramite il furto di calore umano, un tocco strappa via tutto e lo sostituisce con la sensazione continua di freddo; nel momento stesso in cui ha appoggiato il suo polpastrello sul tuo viso il virus ha lasciato il suo corpo per entrare nel tuo e cristallizzare tutto mentre dentro di lei si creavano una serie di fessure che finalmente davano spazio al cuore di battere. Ecco il perché della sorpresa: una valanga di emozioni la stavano investendo alla stessa velocità con cui il gelo entrava in te, il calore si faceva spazio in ogni suo arto, un capillare alla volta.

Hai rivissuto quel ricordo per la millesima volta oggi, chiuso nel tuo bozzolo di fragilità che nessun altro può capire dopo che l’hai allontanata. Non avevi altra scelta, vedere finalmente una luce nei suoi bellissimi occhi profondi ti avrebbe normalmente portato gioia infinita mentre ora ti lasciava indifferente, esattamente come tutto il resto.

Writing Prompt #4

(Birdy – Skinny Love)

“You’re not really on my mind anymore.”

Mentre le parole escono dalle tue labbra sai che riderà. Quante volte glielo avrai già detto? Quante volte sei tornata indietro? Quante volte ti sei ripetuta la stessa frase prima di trovare il coraggio di dirla a voce alta? Hai sperato che dicendolo si avverasse, così come succede per tante altre cose: se me lo tengo per me non è vero, se lo dico allora è fuori e non posso più controllarlo.

Le sue labbra si curvano leggermente in un sorriso ironico che ti taglia fino all’anima, non serve nemmeno sentirlo ridere.

“Ah sì?”

Annuisci, tanto riuscirebbe a smontare qualsiasi altra cosa. Perché sei rimasta ancora una volta? Perché non ti sei imposta di rimanere lontana? Con tutti gli altri ha sempre funzionato: ti dici che non li cercherai più e abracadabra… non devi nemmeno dirlo a voce alta per farlo funzionare, la magia fa da sé. Con lui invece no.

“Allora che ci fai ancora qui?”

Già, che ci fai ancora lì? Ti stai chiedendo la stessa cosa da così tanto tempo che sembra tu non abbia mai vissuto in un altro modo.

“Non lo so, ma ho tempo per lavorarci.”

Mentre lo dici cominci a pregare che non risponda con qualcosa di cattivo. Sai che ha ragione, ma non vuoi sentirtelo dire. Vuoi illuderti ancora per un po’ che questa volta è l’ultima, che non hai bisogno di lui per sentirti completa e in grado di fare cose. Il suo sorriso si fa un po’ triste, ma è ancora lì e ti chiedi come faccia a trovare sempre la forza per mantenere un’espressione serena.

“Tempo per realizzare che vuoi ancora me?”

“No, tempo per realizzare che ho bisogno solo di me e…” ti interrompe con veemenza e istintivamente ti sposti un po’ indietro, anche se lui non ha fatto un solo passo nella tua direzione.

“Abbiamo già avuto questa conversazione almeno una dozzina di volte, mi sto stancando.”

Deglutisci, ti guardi intorno e poi fissi di nuovo gli occhi nei suoi. Ti chiedi quando hai smesso di accorgerti che sotto il caldo color cioccolato c’è un profondissimo buco nero, quando hanno iniziato ad andarti bene le bugie, quando non sono più servite le parole carine per tenerti vicina a lui.

“Vai, no?” ti sta prendendo in giro.

Come ci siete arrivati lì? All’inizio doveva essere una cosa breve e insignificante, poi avete iniziato e voler stare l’uno in compagnia dell’altra e infine avete accettato che ci tenevate, nonostante tutti i buoni propositi di lasciarsi andare alla fine del mese. Quindi che è successo?

Lo guardi ancora un minuto sperando che sia l’ultima volta che ti sentirai addosso il suo sguardo derisorio, l’ultima volta che dovrai dirgli addio pregando che sia davvero l’ultima. Raccogli le tue cose e ti alzi con un sorriso tirato, ti assicuri di non aver lasciato niente in giro per dover evitare di tornare ancora un volta nel suo appartamento e senza aggiungere altro ti avvii verso la porta. Lui non si alza neanche per accompagnarti, in fondo la strada la conosci fin troppo bene.

Apri la porta e stai per mettere un piede fuori quando un pensiero ti colpisce. Ti giri e parli alla sua schiena, almeno, la parte che ne vedi, quindi la spalla sinistra e un po’ dei suoi capelli neri:

“Perché ti sono sempre andata bene? Non hai mai detto no, nemmeno una volta.”

Lo conosci così bene ormai che sebbene non abbia mosso neanche un muscolo ti accorgi che ha irrigidito le spalle e il collo, improvvisamente i suoi spigoli appaiono ancora più taglienti. Risponderà? Si girerà a guardarti? Ti manderà via con il solito tono derisorio? Non sai più cosa aspettarti da lui.

“Forse non sei l’unica che fa difficoltà a rinunciare alle cattive abitudini.”

Prima che tu possa cominciare ad analizzare la sua risposta ti giri e ti chiudi la porta alle spalle con un senso di fine che si poggia sulla testa in un modo buffo: pesa, ma allo stesso tempo ha la freschezza del vento in montagna che ti dà libertà. Sorridi mentre scendi le due rampe di scale che ti portano alla strada, una volta fuori ti giri a guardare la finestra aspettandoti di trovare le tende tirate, invece riconosci l’ombra dietro il vetro sebbene tu non l’abbia mai vista lì quando andavi via.

Writing prompt #3

“It never gets easier.”

La consapevolezza colpisce come un pugno alla bocca dello stomaco. Il desiderio di piegarsi in due e resta così per un po’ è così forte che si ferma anche il respiro, sembra quasi che qualcuno lo abbia veramente preso a pugni e ora stia continuando a prenderlo a calci. Mette a fuoco il dettaglio della pubblicità  nell’angolo in basso della pagina web che stava guardando e si impone di smettere di pensare, “devo solo contare: uno, dentro: due, fuori.”, ma sembra che i suoi organi abbiano deciso di ammutinarsi e nessuno risponde all’allarme di emergenza che suona con il fragore di mille campane non coordinate nel suo cervello, finirà per impazzire se non smettono, si rende conto di averlo pensato e teme quasi di averlo anche detto in un sussurro nella biblioteca affollatissima dell’università.

I pensieri come quello erano cominciati due settimane prima, durante una cena a casa di amici, e da allora si ripresentavano a intervalli regolari. Talvolta lo svegliavano anche nel mezzo della notte lasciandolo frastornato e in preda al panico. Aveva cercato di tenerli a bada per evitare di bloccarsi come stava succedendo ora mettendo subito della musica a tutto volume per non sentirsi, quando aveva smesso di funzionare anche quello aveva iniziato a cercare persone con cui parlare, poi era uscito a camminare, quindi aveva cercato un corso di yoga e infine aveva iniziato a disegnare. Se qualcosa all’inizio aveva funzionato, in quel momento era stato colto alla sprovvista e si sentiva inerme, vittima del bullo che era diventato il suo cervello.

Si guardò attorno per cercare qualcuno che potesse aiutarlo, qualcuno che conosceva già possibilmente, ma era circondato da quasi un centinaio di persone che avevano gli esami quella settimana, proprio come lui, e che non avrebbero alzato lo sguardo dai libri neanche se fosse suonato l’allarme anti-incendio o avessero annunciato che era scoppiata un’altra guerra. Provò a seguire i consigli che aveva letto su una brochure, ma l’ossigeno continuava a bloccarsi tra le narici e i polmoni senza arrivare fino in fondo. Pensò a un campo fiorito, l’odore dei libri nuovi, la sensazione delle lenzuola pulite, un foglio coperto in una grafia perfettamente lineare… niente, tutto veniva risucchiato dal buco nero: non diventerà mai più facile.

Da dove diamine era sbucato quel pensiero? Stava riscrivendo i propri appunti del corso di economia, cosa c’era di più metodico di quello? Deglutì e posò i palmi delle mani aperte sulla scrivania. Magari fermarsi un attimo avrebbe aiutato.

Spostò lo sguardo dalla pubblicità e chiuse gli occhi, avrebbe ascoltato, quello forse sarebbe stato più utile. Penne, carta che veniva accartocciata, quaderni che venivano sfogliati furiosamente, un libro che cadeva dallo scaffale, il ticchettare ossessivo degli altri computer, un sussurro. No, nemmeno quello. Si sentiva ancora come se l’avessero messo sott’acqua e, inoltre, ormai era a corto d’ossigeno. Se fosse svenuto si sarebbe risvegliato in infermeria, magari l’attacco sarebbe anche passato… ma il cervello non imponeva ai polmoni di riprendere il loro lavoro non appena avvertiva che era giunto al limite? Lo stava tradendo anche il suo corpo?

Aprì di nuovo gli occhi e vide lampeggiare il cursore sulla pagina word che aveva aperto sulla schermata del computer, l’ossigeno entrò tutto d’un colpo nei polmoni e fu preso da un capogiro. Una volta che riuscì a mettere nuovamente a fuoco e i pallini neri furono spariti vide che il ragazzo con cui stava condividendo il tavolo lo guardava preoccupato. Gli sorrise in modo che sperò essere rassicurante, poi abbassò di nuovo lo sguardo sulla tastiera. Vagò con lo sguardo dal plico di appunti allo schermo del PC per un paio di volte, poi vide comparire nella periferia del suo campo visivo un post-it giallo. Tornò ad alzare lo sguardo con la fronte corrugata, poi vide lo sconosciuto che continuava a guardarlo e con una penna in mano; prese il foglietto:

Tutto bene?

Era così insolito che la gente si accorgesse di lui, solitamente entrava in un gruppo di amicizie perché veniva presentato, non era tipo da buttarsi nella mischia. Raccolse la matita con cui aveva numerato i fogli e scrisse velocemente la sua risposta:

Sì, è già passato.

Lo passò di nuovo dall’altro lato del tavolo e gli tornò indietro ad una velocità impressionante:

Non si sarebbe proprio dovuto presentare.

Guardò sorpreso l’altro che invece lo guardava serio, come se d’altro canto fosse normale assistere ad un attacco di panico e parlarne con qualcuno che, inoltre, non conoscevi.

Passeranno, è recente.

Il post-it giallo non tornò più dal suo lato del tavolo e così tornò allo studio, il professore non avrebbe certo accettato scuse se non avesse ottenuto un risultato decente all’esame.

Due ore dopo, quando si stava preparando per uscire dalla biblioteca vide che il ragazzo che aveva seduto di fronte stava facendo lo stesso. Decise di non farci troppo caso e uscì dalla sala che non era più affollata come prima tenendo saldamente la borsa con il computer sulla spalla. Sentì solo uno spostamento d’aria prima che lo stesso ragazzo di prima gli si parasse davanti porgendogli la mano.

“Ciao, io sono Victor. Ma gli amici mi chiamano Vic.”

Pretty Picture

(Flashlight – Jessie J, cover by Brooklyn Duo)

Ogni tanto si dimentica la bellezza che c’è nelle cose, nelle persone. Perché? Perché le vediamo tutti i giorni (sia quelli buoni che quelli pessimi), perché diventa un’abitudine, perché ci metti di più ad accorgerti se c’è qualcosa di diverso o ti dimentichi di dire che te ne sei accorto/a.
Poi basta così poco a farti rendere conto di quanta bellezza sia imprigionata in un gesto, in una parola, in un tono di voce, dietro le lenti a contatto che non saranno mai uno scudo per l’anima come lo potrebbero essere gli occhiali (se uno non presta abbastanza attenzione).

A dire il vero basta una risata, una richiesta inusuale e un disegno visto da dietro in corso d’opera per vedere quanto bello possa esserci in una sola persona: nel particolare della punta del naso, delle ombre che giocano sotto le ciglia, nelle pieghe delle labbra quando le morde.

E la poesia? Quanta poesia può esserci in un gesto d’affetto?

Di quante bollicine è composta una battuta? Tante quante ce ne sono in una bottiglia di acqua lievemente frizzante o ci sono tutte le bollicine di un’acqua frizzantissima? Ogni tanto penso di vederle salire dallo stomaco, dove nascono, e salire fino al cervello per offrire una diversa prospettiva ad una giornata iniziata con qualcuno che parlava troppo forte al telefono sull’autobus.

Di quale colore è fatto un ricordo? Rosa antico (il tuo nuovo preferito)? I tuoi ricordi sono tutti raccolti e categorizzati con ordine, immortalati in foto (vere e proprie, e fotogrammi di momenti che porterai sempre nel cuore) perché non scappi mai niente.

Come pensi che ti vedano gli altri? (Oggi sono in vena di fare domande, tu humor me e rispondi) Come la ragazza con cui non si scherza, perché è in grado di risponderti per le rime, o come l’adulta che si mette a ridere se la si fissa? Tutte e due magari. Sotto i completi da futura universitaria proiettata verso il futuro rimane la bambina affamata di vita che si tuffa nel verde più verde.

Era fatto proprio bene quel disegno, lo si vedeva anche nella penombra della stanza, anche occhieggiandolo da dietro le spalle dell’artista. Coglieva lo spirito dietro quel comunissimo gesto, pur nel suo anonimato comunicava un senso di piacere: quel piacere che sanno dare solo le cose belle.

Quanto bello ci vuole per cambiare il verso di una giornata? Quante bollicine? Quanta poesia (quelle di Catalano, magari)? Quanti bei ricordi? Quante matite colorate? Quante parole sul quaderno verde a righe?

Hai trovato tutte le tue risposte? Hai trovato te stessa in tutti i dettagli che ho mischiato qui dentro?

Torno all’immagine sul banco, perché ho iniziato così e mi sembra giusto tornare là, almeno per fare finta che io stia seguendo un ordine logico. Mi sembra una magia, ripensandoci, che una matita sia riuscita a trasmettere l’essenza vera di una persona. Il mio piccolo miracolo quotidiano. E picturing la persona vera penso a tutto quello che c’è imbottigliato lì dentro, tutto quello che esce, quello che rimane, quello che freme per uscire e quello che invece rimane giù per evitare di non riuscire più a fermare la reazione.

Ci vorrebbe una citazione bellissima a questo punto, di quelle che capirebbero davvero in pochi. Tu buttacela dentro, in questo caos con una minuscola parvenza di ordine andrà bene qualunque cosa.

Mancavano gli occhi… temeva di rivelare troppo o che qualcuno, guardandolo, si innamorasse?

Writing Prompt #2

(Saint-Saëns: The Swan, Brooklyn Duo)

Se ne era andata, e questa volta sarebbe stato definitivo.

Aveva preso le sue cose, le aveva messe in tante scatole che aveva sigillato in fretta mentre lui faceva finta di essere occupato altrove quando invece continuava a guardarla che toglieva i libri e i CD dalle mensole e piegava i vestiti da mettere nella vecchia valigia blu.

Ha minacciato talmente tante volte di farlo che quasi non ci credeva più, erano diventate parole vuote come ciaotorno tardi cosa c’è per cena. L’ultima volta invece non glielo aveva detto urlando, né durante un litigio: si era fermata sulla porta della cucina e stringendo le mani davanti a sé glielo aveva comunicato in un sussurro con la pubblicità di un detersivo che faceva da sottofondo. Erano rimasti immobili, ognuno al proprio posto, guardandosi negli occhi per cercare di capire. Cosa di preciso non era dato saperlo.

Sarebbe andata a stare da un’amica, chi fosse non glielo aveva voluto dire e lui non aveva più chiesto.

Ora lui si ritrovava con un appartamento che avevano scelto insieme e con la metà delle cose a riempirlo, si sentiva un fantasma che però stava perseguitando solo se stesso.

Dopo solo una settimana di lei era sparita ogni traccia: i capelli sul tappeto, l’odore tra le lenzuola, il cibo etnico nel frigorifero, l’ordine degli asciugamani (che per lei andavano divisi per misura e colore, sistemati secondo una scala cromatica crescente). Era rimasta solo sul campanello, che prima o poi avrebbe sistemato, e sulla sua poltrona preferita vicino alla finestra, dove aveva dimenticato un saggio sull’amore, come l’ultima reminiscenza di un sogno quando ci si sveglia. Ogni tanto quando tintinnavano le conchiglie che lei aveva sistemato sul lampadario della loro – no, sua – camera da letto gli tornavano con prepotenza in mente le mattine spese pigramente abbracciati quando il suo respiro o la barba corta, spuntata di notte, le facevano il solletico, oppure le ore passate per gioco davanti all’armadio a provare outfit improbabili e, perché no, quando si sorprendevano a vicenda proponendo un pranzo nel parco o una passeggiata dopo cena.

Riusciva ancora a vederla con chiarezza sulla soglia della porta vestita di rosso quando erano venuti a vedere l’appartamento la prima volta. Era entrata cautamente mentre l’agente immobiliare continuava a elencare i pregi di quel piccolo trilocale, l’aveva guardata avventurarsi per i fatti suoi nell’altra stanza mentre lui rimaneva con la donna che non sembrava voler mai smettere di parlare, quando era tornata aveva un sorrisino che le tirava gli angoli della bocca, ma non aveva detto niente fino a quando non erano scesi in strada.

“Sullo stipite della porta della camera sono segnate delle altezze.” aveva detto abbracciandolo.

Era bastato così poco a farla innamorare di quel posto, lei che aveva vissuto praticamente tutta la vita nello stesso isolato.

Lo aveva lasciato.

Quando anche l’ultimo scatolone era stato portato nell’auto si erano ritrovati a guardarsi negli occhi, troppo impacciati per dire alcun ché di significativo.

Avrebbe voluto chiederle se lo amasse ancora, ma la risposta era già lì che fluttuava nell’aria; perché, allora… batava guardarla bene per accorgersi che per smettere di tremare stava stringendo il manico della propria borsa al punto da far sbiancare le nocche, che continuava a spostare i piedi sul parquet e che le si stavano affollando lacrime negli occhi caldi.

“Allora ci siamo!” si sforzò di sorridergli.

Poi come ricordandosene all’ultimo aveva pescato le proprie chiavi dalla borsa e le aveva messe sul tavolino all’ingresso, forse non sentendosi abbastanza forte per posargliele sul palmo della mano.

Aveva chiuso la porta delicatamente, come faceva sempre lei, e da lui sgorgò la supplica che non aveva avuto il coraggio di rivolgerle, terrorizzato all’idea che lo esaudisse:

“Please, just- stay. Please.”

Portrait

Non ti guarda mai, se anche lo facesse tu non avresti il coraggio di restituire il suo sguardo. Gli occhi, di un grigio caldo dai toni intensi con pagliuzze di un verde profondo, quando ti squadrano in un primo momento sono vacui e smorti sebbene sulle sue labbra aleggi un sorriso. Ti chiedi come sarebbe un sorriso birichino su quella bocca, come sarebbe lo scintillio divertito riflesso nei suoi occhi… che aspetto aveva prima il suo viso? Come sarebbe stato incrociarlo per strada con un’amica? Come sarebbe stato guardarla immersa nel suo libro sulla metro?

Ti irretisce con la sua voce suadente, resa un poco roca per artificio; ti perdi anche tu nel momento, alla fine sei lì per  quello che ti può dare: volessi stare a studiare una donna saresti un ritrattista magari anche squattrinato.

Prima, dimmi come eri prima – sembri supplicarla dopo, cerchi forse una giustificazione o una redenzione per te stesso. E lei socchiude gli occhi increspando appena le labbra in un sorriso forse sonnacchioso, non ti darà una risposta perché ne andrebbe della sua freddezza e impenetrabilità. Ti risponderà che è sempre stata così, che è una meravigliosa tela su cui ognuno può dilettarsi; non può portare avanti la metafora dicendoti delle condizioni deplorevoli in cui versa, ricoprire di bianco ogni volta non cancella quello che c’è sotto.

Cosa è rimasto di te dopo? Cosa rimane di lei quando ha salutato anche te languidamente? Che faccia così per non dover portare avanti la farsa, o sta già passando una nuova mano di bianco?

Ti tormenterà per qualche ora l’apatia dei suoi occhi, ti basterà una notte a dimenticare la forma delle sue labbra e un abbraccio a cancellare il calore del suo corpo, l’aspetto delle sue bugie così dolci.

Tornerai, e sarà come dover conoscere uno sconosciuto o esplorare una terra nuova, forse avrai un piccolo déjà-vu che ti farà sorridere e penserai alle altre che ci sono state: a come era diverso con loro che dopo si addormentavano con te, a come era bello riaccompagnarle sotto casa dopo la serata al cinema o con gli amici.

Lo sguardo di lei invece ti mette i brividi. Gli occhi spenti, di nuovo… c’è un interruttore da qualche parte? Il corpo morbido dopo è inerte per un momento, dove è andata la sua testa? La sta richiamando da dove l’aveva mandata mentre eri con lei? Ti accompagna alla porta con un sorriso che le aleggia sulle labbra, fragile come le ali di una farfalla; i movimenti meccanici, i saluti cristallizzati.

Questa volta quanto durerà la sensazione di vuoto che sai di averle lasciato dentro, quanto resisterà il tuo appagamento?

Recidivo, sei un recidivo.

La pensi mai? Ti scoppia mai nella testa il ricordo di quel grigio che ignori sempre perché ti inquieta?

Credi, invece, che lei faccia il conto delle ore da quando sei uscito a quando arriverà il prossimo? Quanto manca a quando rimarrà finalmente da sola? Distrugge la sua tela? Gratta via gli strati di vernice in un angolo fino ad arrivare a scoprire il primo strato, quello originale, che rimira con nostalgia? Oppure è rabbia.

Grigio pietra, ali di farfalla, caldo conforto.

Silenzio, rumori

Chiudi gli occhi, stasera abbiamo tempo. Se ascolti attentamente sentirai il suono cupo che fanno i pensieri, il ronzio sordo prodotto dai ricordi, il fruscio suadente delle cose che stai dimenticando.

Va tutto piano, stanotte potresti riuscire a riposare oppure ti sembrerà di fare in tempo per raggiungere i tuoi sogni, quelli che ti eludono da quando li hai dovuti mettere da parte. Si comportano come donne offese, forse anche un poco petulanti; tacciono, ti ignorano… anche quando compri loro dei fiori non ti danno soddisfazioni, magari li lasciano ad appassire senza neanche metterli in acqua.

Ma si muovono le lancette? Immerse in acqua anche loro, il mondo sembra essere in sordina. Non si sente la sinfonia di migliaia di strumenti, neanche la cacofonia delle prove quando non è ancora arrivato il maestro, neppure il suono disorganico degli strumenti che accordano. Stasera è come se mi avessero messo i tappi per le orecchie.

Hai ancora gli occhi chiusi? Bene, c’è ancora tempo. Tu stai a sentire il languido mormorio prodotto dell’innocenza che lentamente si avvia al mare, ascolta lo sciabordio dei pensieri più poetici, il frastuono prodotto dalla cascata delle date importanti che tieni a mente. Presta attenzione al timido ticchettio della pioggia sul vetro. Di che vetro parlo? Quello dei tuoi occhi, solo che piove dentro e fuori il mondo in una tiepida mattina di novembre cerca di farti sorridere.

Hai ancora voglia di starmi a sentire? Ci sono così tanti suoni da analizzare ancora. Il rombo delle forti emozioni, lo scoppio dei fuochi d’artificio quando vieni sorpreso, il crepitio dei ricordi della memoria a lungo termine, il seducente sussurro della tristezza, l’invitante chiacchiericcio della felicità insensata. Insensata perché non ha una ragione, è quella sensazione che ti apre gli occhi e chiude lo stomaco, quella che ti fa sorridere a uno sconosciuto quando incroci il suo sguardo, quella che ti porta a dire una parola gentile senza un motivo.

In un angolo si nasconde anche il tintinnio prodotto dall’amaro che ti lascia in bocca una delusione, vicino ad esso il più insistente squillo generato dai desideri. L’amore si è sistemato al centro, comodamente adagiato sull’unica poltrona in attesa di mettersi a urlare più forte di tutti gli altri: è così fastidioso, così prepotente. Ma puoi quasi dimenticartene ogni tanto, mentre riprende fiato.

Le fantasie vengono tutte sistemate ordinatamente sugli scaffali da un bibliotecario con un carrello che ha le ruote che cigolano, si dimentica sempre di oliarle. La conoscenza si aggira ricordando a tutti di pagare l’affitto, è una vecchietta che passa da tutti i nuovi arrivati e con modi bruschi spiega rapidamente come funzionano le cose; non sta simpatica a molti.

Ci sei ancora? Il tempo ha ripreso a scorrere o è ancora bloccato nel traffico? Magari fa benzina, oppure chiede informazioni a qualche passante. Senti il suono della tua voce? È un gran doppiatore. È il narratore della tua storia, coordina tutti gli altri. Sanno tutti che c’è, ma non si vede mai. A dirla tutta ha affittato il solaio chiedendo alla Conoscenza di non farne parola a nessuno; da lì fa sentire la sua voce. La cosa che gli piace di più è prendersi gioco degli altri, ogni tanto impersona uno degli altri personaggi e li manda tutti in confusione.

Vedi, bloccati tra le orecchie hai un’infinità di possibili mondi, una quantità allucinante di combinazioni possibili. Diventa un buon scassinatore, la combinazione giusta è solo un suono più in là.

Writing prompt #1

“Kiss me, please.”
L’aveva sussurrato vicino alle mie labbra, ad un sussurro dalla mia bocca: così vicina che mi sembrava già di poter sentire la morbidezza della sua pelle sotto le mie dita.
Forse non era del tutto in sé, eravamo ad una festa di quelle rumorose dove ci si diverte che uno lo voglia o no, quelle dove alla fine trovi sempre qualcuno con cui parlare anche se sei venuto da solo.
E ci eravamo trovati noi.
Frequentavano la stessa scuola dalle medie, era anche capitato che andassimo in gita nello stesso periodo, ma mai avevo sentito una connessione così, mai avevo pensato che saremmo arrivati a questo momento.
Mi guardava con occhi grandi, le pupille un po’ dilatate dall’alcool e le mani leggermente poggiate sul mio petto. Aspettava che facessi qualcosa o che almeno parlassi, immagino.
E io restavo lì imbambolato a pensare invece di agire.
Non avevo mai avuto una cotta per lei, eravamo anche stati amici per un poco da bambini, e alla fine ci eravamo persi per ritrovarci alla festa di fine anno organizzata da un amico comune con un’enorme casa libera.
Aveva parlato in modo così chiaro, l’avevo capita perfettamente al di sopra della musica anche se le sue parole erano state al di sotto del volume della canzone; avessi avuto una giacca, forse mi avrebbe afferrato, ma avevo una comoda maglietta nera.
“Kiss me, please.”
Come se lo avesse ripetuto, il suo sussurro mi colpì come un fulmine e tornai a fissare la curva delle sue labbra: se anche aveva messo del lucidalabbra prima di uscire, questo era rimasto sul bordo di qualche bicchiere.
Come sembravano morbide le sue labbra, come parevano sinceri i suoi occhi mentre scrutavano le profondità scure dei miei.
Quanto era passato da quando aveva parlato? Non ricordava se fosse partita una nuova canzone o fosse sempre la stessa, ed erano passati appena pochi millesimi di secondo.
Portai le mani fino al viso di lei, ma alla fine invece di incorniciarglielo decisi di posarle entrambe sul collo, con il pollice che le sfiorava il punto in cui poteva sentire il battito del suo cuore… stava andando a mille. Il mio stava forse facendo la stessa cosa? Non ero più consapevole di avere un corpo.
Percepii il suo respiro solleticarmi il viso, era così vicina, bastava che qualche ballerino maldestro ci sfiorasse perché finissimo per abbracciarci, appena un filo d’aria passava tra di noi, ci stavamo scambiando ossigeno per cercare di sopravvivere.
La vidi passarsi la punta della lingua sulle labbra, un gesto nervoso. Bere non rendeva le persone disinibite? Mi sentivo così lento, così grande eppure inconsistente come l’aria.
Ma il tempo stava andando avanti? Eravamo appena al secondo accordo della canzone che usciva dalle casse come un uragano.
Lei poteva percepire tutto quello che mi passava per la testa? Non era insicurezza, sapevo di volerla baciare, ma avevo sempre pensato troppo.
Le mani di lei strinsero un po’ del tessuto della mia maglia, forse un gesto inconsapevole… Oppure no? Oppure era per tirarmi più vicino a sé?
Mi accorsi che aveva socchiuso gli occhi, e i miei neuroni specchio mi imdussero a fare lo stesso: perché si chiudono gli occhi quando ci si bacia? Per non venire distratti? Non riuscirei a distrarmi neanche se scoppiasse la terza guerra mondiale.
Sfiorai, forse per sbaglio, la sua bocca, e quell’assaggio fu la mia rovina: possibile che già ne volessi ancora? Poteva essere diventata una droga?
Scivolai con una mano fino alla nuca mentre l’altra persisteva a voler sentire il battito furioso del suo cuore, ancora più lentamente di prima cercai la sua bocca.
“Kiss me, please.”

Vivaldi a un crocicchio

(The Four Seasons #4 in F minor, Op.8 “Winter” 1. Allego non molto- Vivaldi)

Se una volta capitasse di conoscere qualcuno ad un incrocio?
Se ti scontrassi svoltando l’angolo?
Se ti imbattessi in un amico che non vedi da tempo, o che hai visto due giorni fa?
Ogni tanto si incontra anche Vivaldi scegliendo quale delle tre strade percorrere, quindi, come tanti altri, si incontra ad un crocicchio.
L’ho ritrovato dopo tantissimo tempo perché mamma me ne ha proposto una versione insolita, più viva di quello che tanti credono possibile: è solo musica classica.
No, non è solo musica classica, non è solo un musicista, non è solo un quartetto d’archi quello che senti per strada quando passeggi. La musica non è solo, perché non è qualcosa che aggiungi alla fine, come la famosa ciliegina: è la farina, le uova se vuoi.
Quindi, sentita la versione vivace di un musicista spagnolo, ho pensato a come portare il famoso Inverno in vita, sotto gli occhi del mio distratto lettore, sulla pagina bianca che compare sullo schermo del tuo computer.
E l’ho pensato ad un crocicchio, come i musicisti della metro a New York o a Londra, quelli in via Roma a Torino; uno bravo che vuole far sentire la propria anima, uno egoista che si scopre altruista nel fare ciò che gli fa bene.
Così il Vivaldi che mia madre ama, quello che, inconsciamente, ha scelto per mia sorella, si ripresenta come un musicista di strada particolarmente dotato che ti fa fermare e sorridere, anche se il suo non è il tuo genere.
L’ho immaginato che viaggiava con il suo violino su di una corriera e si fermava quando sentiva il luogo chiamarlo; oppure che vagava per l’Europa in treno e suonava fino allo sfinimento in stazione, saliva sul treno dopo e quando si fosse svegliato dal suo sonno ristorante sarebbe sceso, qualunque fossa la città.
Lavoro troppo di fantasia, forse.
Non volevo parlare di musica, non ne so poi così tanto, però ho la presunzione di saper parlare di emozioni e anche sentimenti (qualche volta, di certo non dei miei); per questo motivo ho ripresentato sulla scena qualcosa che io non vedevo da tempo, per questo motivo ho mantenuto inalterata l’idea come mi è saltata in mente, originale.

Short Tale

(Romance for Piano and Violin, Op.11 – Dvorak)

Si videro agli estremi di un lunghissimo corridoio, separati da metri e metri di piastrelle azzurre e bianche. Una lunga parete bianca costellata di porte intervallate da ritratti di personaggi austeri fronteggiava una serie di finestre, tutte coperte da pesanti tende che non lasciavano filtrare che qualche misero raggio del caldo sole dei primi di giugno.

Rimasero un istante a guardarsi senza poter davvero distinguere i tratti dei loro volti nella penombra, il silenzio non era spezzato che dal canto appena udibile di qualche passero nel giardino oltre le finestre, nessuno passava lì a quell’ora, quindi non c’erano passi frettolosi e nervosi a distrarli. Si contemplarono.

Con un breve cenno della testa la salutò e lei ricambiò con un sorriso che non era del tutto certa avrebbe potuto vedere.

Alle spalle di lui si allungava un altro lunghissimo corridoio, identico a quello dove si trovavano loro se non per i colori: un rosa pallido al posto dell’azzurro, e le tende quasi arancioni per la luce che le investiva. Dietro di lei la sconfinata vastità di quella che un tempo forse era stata una sala da ballo: candelabri immensi, poltroncine su cui ormai non poteva sedersi più nessuno, quadri anche lì, porte finestre che davano sulla terrazza su cui un tempo forse uscivano le persone e che ormai ospitavano solo le foglie morte d’autunno.

Inclinando appena la testa di lato e corrugando la fronte fece un passo incerto nella sua direzione, lo sconosciuto mise le mani in tasca e sembrò sporgersi in avanti, come se stesse guardando oltre una balaustra. Prendendo un po’ di sicurezza ne fece ancora uno e si fermò nel fascio di luce che rompeva la monotonia dell’ombra creata dalle pesanti tende; ancora una volta lui si sporse in avanti, questa volta portando la mano sinistra alla tasca della giacca che indossava.

<Siete qui per la prima volta? >

La limpidezza della sua voce la sorprese, si era aspettata qualcosa di diverso anche se non sapeva veramente dire cosa. Forse una nota roca, incertezza nel tono, non quella innocenza che si trovava solo nei bambini.

<No, cerco di trovare il tempo per venire almeno una volta al mese. Scovo sempre qualcosa di nuovo qui. >

Lo vide alzare gli angoli della bocca, ma non poteva dire che si trattasse veramente di un sorriso, sembrava un sorriso, ma mancava qualcosa: si era forse aspettata di trovare anche in quello la serenità dell’infanzia?

<Siete fortunata allora. Io trovo appena il tempo di ricordarmi di respirare. >

Si mise a ridere e il suono riecheggiò sulle pareti bianche fino ad arrivargli chiaro e distinto, e al contempo come se venisse di lontano, da un tempo andato perduto.

Fece anche lui un passo in avanti, ma ciò lo consegnò alle ombre e rese impossibile proseguire lo studio che lei ne stava facendo. Sorrise di quell’idiozia: non si studiano certo le persone! Però le sembrava che ci fosse qualcosa di… qualcosa che non riusciva a cogliere. Stava decisamente impazzendo, parlava di un perfetto sconosciuto come di un amico che conosceva da una vita.

<Cosa avete scoperto di nuovo questa volta? > che fosse in ombra per un momento le fece dubitare che stesse parlando veramente con un uomo in carne ed ossa.

<Sto lontana dalle stanze, voglio vedere cosa riesco a trovare nei corridoi. >

<Insolito, non c’è nemmeno abbastanza luce, le opere migliori sono dentro, sotto la luce dei faretti. >

Fece ancora un passo nella sua direzione, era affascinata. Attese un momento che gli occhi si adattassero alla nuova luce, decisamente meno intensa.

“Ho scovato voi, non è abbastanza per questa volta?” non lo disse, era inconcepibile che lei dicesse una cosa del genere.

<Non ho ancora finito di vedere tutti i corridoi di questo piano, e c’è ancora il secondo. Forse troverò qualcosa di accattivante nel prossimo. >

Fu il leggero borbottio della sua risata a raggiungerla, se quella di lei era rimbalzata sui muri, quella di lui era scivolata sulle piastrelle lisce fino a risalire dalle piante dei piedi alle orecchie.

<Buona caccia allora. >

La porta che era più vicina a lui si aprì e una valanga di visitatori si riversò nel corridoio. Rimase ferma dov’era sperando di trovarlo ancora lì quando gli altri si fossero spostati alla sala successiva. Invece, quando di nuovo fu tutto silenzio e nemmeno i passi dei bambini risuonavano lungo il corridoio, lei era sola.

Avanzò verso il punto in cui l’aveva sentito per l’ultima volta e si guardò attorno cercando qualche traccia della sua presenza.

Nulla.

Voltandosi verso la parete un sorriso le increspò le labbra riconoscendo nel quadro che era attaccato di fronte a lei la novità che stava cercando.

Odore inaspettato

Venerdì quando sono uscita di casa per andare a scuola, quindi presto, la città aveva il profumo che ha d’estate dopo che ha piovuto.

Le strade erano bagnate, gli alberi gocciavano ancora dell’acqua che avevano preso nel corso di tutta la notte e nelle pozzanghere si specchiavano le gocce che continuavano a scendere dal cielo. Le macchine passavano di fretta, come a evitare lo scroscio, quelle ferme non avevano neanche il caratteristico spazio asciutto sotto, tanto aveva piovuto, e stava continuando a fare, se qualcuno doveva proprio uscire si nascondeva sotto l’ombrello colorato, come a fare dispetto al cielo plumbeo sinistramente grigio.

Ma appena messo piede fuori dal portone la prima cosa ad avermi colpito non è stato tutto questo, non è stata la poesia della musicalità estrema dell’acqua, non il fiume quando l’ho attraversato, non il fatto che mi sarei sicuramente bagnata: è stato l’odore. Caratteristico dell’estate.

Lo riconoscono tutti, non a tutti piace, ovviamente, ma è quell’odore di sabbia bagnata. Lo so che è assurdo parlarne in una città che nemmeno ha il mare, ma per identificarlo si può fare solo così: è il profumo dei temporali estivi. Quelli si fanno annunciare dal distante brontolio che borbotta dei tuoni, quelli che ticchettano poi per un paio d’ore sulle tue finestre.

E’ solo primavera, è appena Aprile, ci siamo da poco inoltrati nella bella stagione, gli alberi si sono nuovamente coperti di foglie e nei parchi stanno spuntando le prime margherite, e venerdì mattina l’aria profumava d’estate, nonostante il freddo parlasse di tutt’altro.

Ho realizzato sabato che non scrivo più poesia, non parlo più di poesia; è qualcosa che ho lasciato andare, probabilmente l’ho passata come fosse un testimone a qualcun altro, non faceva veramente per me. In compenso ho riscoperto (come se si fosse mai veramente sopita) la mia voglia di viaggiare, collezionare ricordi in tante piccole cianfrusaglie di cui non saprò mai che fare ma da cui mi sarà sempre impossibile separarmi. Ho trovato il coraggio di confessare di volere ciò che non posso avere, ho scoperto di saper essere cortese anche quando ti irritano, ho scoperto che so lasciare andare le persone per la loro strada… forse la cosa migliore che mi sia capitata negli ultimi anni.

Dunque, non so più creare poesia, non so chiudere il mondo dietro una cesura ben piazzata, non ho la capacità di creare figure di suono e concentrarmi su una rima o due.

Voglio arrivare al punto di riuscire a dire in tutta serenità che la mia vita è diventata poesia.

Che sia riuscita a chiuderla in un “diario” virtuale o che sia documentata in album contenenti centinaia di fotografie, che sia la collezione di biglietti aerei e agende.